L’intervento storico-poetico del Foscolo (1978)

W. Binni, L’intervento storico-poetico del Foscolo, in Id., Ugo Foscolo. Storia e poesia cit., pp. 3-32. Si tratta del testo, ampliato e annotato, della prolusione pronunciata in occasione della celebrazione del bicentenario foscoliano presso l’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma (18 ottobre 1978) e presso la Fondazione «Giorgio Cini» di Venezia (26 ottobre 1978). Con il titolo assegnato originalmente alla prolusione, Foscolo oggi: proposta di una interpretazione storico-critica, lo scritto è pubblicato prima in «La Rassegna della letteratura italiana», a. 82°, serie VII, n. 3, Firenze, settembre-dicembre 1978, pp. 333-351, quindi in Atti dei Convegni Foscoliani (Venezia, ottobre 1978), vol. I, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1988, pp. VII-XXX.

L’intervento storico-poetico del Foscolo

Il bicentenario della nascita di Ugo Foscolo[1] cade in una fase, iniziata da tempo, in cui l’immagine dello scrittore appare in complesso meno viva e attrattiva di quanto essa sia stata in altre epoche storiche.

Come fu quella risorgimentale e postunitaria quando – dopo la contrastata affermazione del Foscolo fra i contemporanei che gli anteponevano l’immagine sontuosa del Monti e non comprendevano la sua novità troppo inedita, sconcertante, «scomoda», e dopo l’aspro dibattito ideologico fra il côté cattolico (Rosmini e Tommaseo) che contrapponeva al suo classicismo materialistico e irreligioso il Manzoni, voce del secolo romantico e cristiano, e il fronte laico-democratico (soprattutto Mazzini e poi Cattaneo) che, pur rifiutandone ed espungendone gli elementi del pensiero materialistico e le conclusioni «impopolari», ne esaltava la prospettiva nazionale, la nuova concezione del letterato-sacerdote, incontaminato ed esemplare – questo fronte risultò vincente e diffuse di Foscolo, sino a livello popolare e di costume, un’immagine unitaria e statuaria, valorizzandone l’Ortis e soprattutto i Sepolcri, poesia della resurrezione della nazione italiana (laica e unita per la libertà e non per la potenza aggressiva) e poi (nella interpretazione del De Sanctis) punto alto della parabola foscoliana che il grande critico tracciò rilevando in quel capolavoro l’unione profonda di coscienza e fantasia e l’accordo con il movimento della storia di primo Ottocento.

Come fu anche quella della prima metà del Novecento che, reagendo all’agiografia risorgimentale e ai suoi limiti di comprensione della vasta e complessa opera foscoliana, si dimostrò tanto piú attenta al valore estetico di quella nello sviluppo ingente di interpretazioni e di studi, tesi a recuperare una piú intera immagine del Foscolo approfondendone (merito primo del maggiore foscolista del Novecento, Mario Fubini, di cui rimpiangiamo ancora qui la scomparsa) sia l’elemento complementare didimeo rispetto all’elemento passionale ortisiano, e quindi la prosa sterniana didimea, sia la tensione all’armonia e quindi la poesia delle Grazie già nettamente condannata dal De Sanctis come poesia intellettualistica e allegorica e poi invece, negli anni ’30-40, divenuta acme della lirica foscoliana e addirittura, nel giudizio del Flora, la lirica piú alta dell’Ottocento italiano.

E certo le interpretazioni e gli studi della prima metà del nostro secolo si allargarono all’approfondimento di tutta la produzione foscoliana sia nelle singole opere sia nella cultura che le sorregge e nel pensiero politico e filosofico, estetico e critico, dettero avvio a quella edizione nazionale delle Opere foscoliane[2] che dovrebbe compirsi in approssimativa coincidenza con questo bicentenario, e insieme attuarono e avviarono vaste ricerche per una piú attendibile biografia del Foscolo che tuttora si attende per avere una base piú sicura alla stessa interpretazione critica del lavoro artistico foscoliano: le cui tappe e datazioni rimangono in molti essenziali momenti aggrovigliate ed incerte, anche a causa della stessa ricostruzione mitico-apologetica con cui il Foscolo (romanziere di se stesso) complicò la sua reale vicenda e la precisa motivazione delle sue opere. Si pensi, ad esempio, alla selva intricata della genesi e formazione dei sonetti, che intrecciano poi ragioni biografiche e schemi ispirati alle situazioni dell’Ortis in svolgimento[3], o al lungo periodo inglese, ancora in gran parte bisognoso di nuove ricerche particolari da parte di studiosi esperti della reale situazione politica e culturale inglese, dell’italianismo inglese, della precisa consistenza degli interlocutori inglesi, e bisognoso di una scansione di fasi del lavoro foscoliano meno settorialmente considerato e invece da inserire in uno svolgimento dinamico, entro un ambiente nuovo e ricco di aperture europee, e in un’interrelazione fra le attività del critico, dello storico, del politico, del traduttore-poeta di Omero, da considerare anche come modi di intervento nella storia della Restaurazione e nell’assillo persistente della storia d’Italia e della propria funzione di intellettuale-scrittore.

E tuttavia – senza voler affatto accedere, in nome dell’hoggidí senza radici, ad un appiattimento o, peggio, ad un’assurda liquidazione di un lavoro critico, filologico, erudito cosí imponente e importante – in una revisione generale e compendiosa di quella lunga fase, le interpretazioni critiche della prima metà del Novecento appaiono pur caratterizzate da alcuni chiari pericoli nella delineazione prevalente della immagine del Foscolo. I pericoli derivanti dall’estetica idealistica-crociana e da quella della poesia «pura», simbolistica ed ermetica, del frammentismo della «prosa d’arte», e quindi di un’immagine del Foscolo come essenzialmente lirico e prosatore d’arte cui si voleva soprattutto guardare, liberandolo sí dal mito e dall’agiografia risorgimentale, ma alla fine dalla «impurità» della storia e della sua stessa vicenda concreta e politica-ideologica e considerandolo soprattutto nella sua vocazione di poeta «puro» culminante perciò nelle Grazie come voce del puro e metastorico vate dell’armonia, decurtandone la pregnanza storica, politica e ideologica. Cosí come, alla fine, si insidiava lo stesso importantissimo acquisto della prosa sterniana-didimea riportandola alle condizioni della novecentesca «prosa d’arte», perdendone le ragioni piú complesse e il significato nella storia complessa dello scrittore: forse che le Lettere d’Inghilterra son risolvibili in un puro alto divertissement artistico-stilistico? Ché invece, a sostegno di quel sottile gioco di pagine e lettere, patetiche e ironiche nella descrizione del «bel mondo», esse sono un ulteriore intervento del Foscolo del periodo inglese nella situazione italiana al tempo della Restaurazione, con il rinnovato attacco ironico-polemico ai patrizi lombardi (oggetto costante della sua battaglia sociale e politica) e la voce della sofferenza personale-storica foscoliana, le cui piaghe lacerano e sostengono, nell’apparente disimpegno politico, la vera consistenza di quella – come la chiama l’autore – «matassa delle digressioni a fila di mille colori – e rosee – e sanguigne – e funeree»[4].

Tali pericoli e specie le loro estremizzazioni (pur tenendo conto delle correzioni già portate da interpretazioni piú storicistiche e da quelle storico-critiche in atto da tempo) han pure concorso a motivare, per reazione, le piú recenti difficoltà di rilievo del valore foscoliano, certa flessione della presenza del Foscolo nel clima generale del nostro tempo, che han primissimi segni nell’ultimo dopoguerra: quando agí fortemente l’espanso recupero di cauti spunti limitativi gramsciani, mentre l’attenzione piú viva, dal ’47 in poi, si spostava sul Leopardi «eroico» e «progressivo». Tendenza limitativa che poi trova sin troppo clamorosa espressione di insofferenza nel noto pamphlet dissacratorio di Gadda (Il Guerriero, l’Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo[5]), piú volte diffuso anche in forma teatrale e aggravato, nella sua genesi umorale (piú interessante per Gadda che per Foscolo), appunto dalla reazione alla versione piuttosto scolastica della dimensione agiografica ottocentesca e di quella novecentesca della «poesia pura», per giungere infine a certi moti impazienti recenti o recentissimi che – malgrado le loro punte piú rozze e snobistiche – in qualche modo pur denunciano il riflesso reattivo all’immagine idealistica e puristica del Foscolo che cosí veniva piú facilmente schiacciata fra quelle sempre piú emergenti del Leopardi e del Manzoni, e che va indubbiamente nuovamente rivista e nuovamente impostata.

Non si tratta certo di affidarsi alla risolutività di particolari approcci metodologici, come quelli psicanalitici o strutturalistici che, per ora, non mi sembrano esser risultati, nel caso del Foscolo, molto fruttuosi.

Penso invece che si possa e debba contribuire a un rilancio del Foscolo anche fuori del campo specialistico, approfondendo vie già iniziate e già in discussione con i rischi e gli errori dell’interpretazione del metodo crociano e puristico, e soprattutto attuando realmente la valida esigenza di intera storicizzazione dello scrittore[6] finalizzata alla migliore comprensione delle punte alte della poesia entro il flusso del suo lavoro artistico, nel suo nesso essenziale al moto di risposta e di intervento nella storia che va dalla rivoluzione alla Restaurazione, nel suo carattere piú problematico che risolutivo (ma tutt’altro che immobile e ripetitivo), nella sua inquieta conflittualità tradotta nell’operazione artistica, essa stessa irrequieta e in continuo svolgimento e mai fuori dell’attrito con gli stessi ingorgati problemi vissuti e sofferti dall’intellettuale-scrittore e letterato, seguendo costantemente lo sviluppo di questo e della sua nozione e pratica, che va dalla discussione con la nozione libertaria-aristocratica alfieriana («né visto è mai dei dominanti a lato») al suo cambiamento in quella dell’intellettuale militante giacobino, a quella del collaboratore critico del sistema napoleonico (critico fino al piú aperto dissenso ed opposizione), all’elaborazione della nozione e pratica dell’intellettuale letterato delle lezioni pavesi in netto distacco dalla vecchia e nuova nozione del letterato cortigiano e creatore del consenso al potere e non ai profondi bisogni della società nazionale che il vero letterato deve, dove è possibile, assecondare in una via autonoma e creatrice di nuovi problemi, a quella dell’intellettuale europeo del periodo inglese in opposizione alle prospettive degli intellettuali reazionari della Restaurazione.

In tal modo – partendo da un’immagine piú storica del Foscolo – si farà meglio risultare quella ricchezza di interessi e di aperture che la sua personalità ed opera ben possiedono proprio nei confronti dei lettori di questo scorcio del secolo XX.

Si calcoli il ben prevedibile interesse attuale per il personaggio e per la sua vicenda, per il grande creatore del proprio personaggio romanzesco aperto in tante proiezioni e «doppi» di sé nei personaggi delle sue opere (fra elementi autobiografici e loro trasfigurazione inventiva appoggiata da tante sollecitazioni culturali e letterarie a livello europeo), si pensi, per i Sepolcri, al problema della morte e alla recente tanatologia[7], ai nuovi spazi interni dell’uomo, pur materialisticamente concepito, che Foscolo vi apre e all’odierno interesse antropologico, o, specie per l’Ortis, all’incrocio dirompente delle sofferenze personali e politiche, si pensi – anche se a vario livello di esiti – alla ricchezza di aperture e di registri dello sperimentatore di linguaggio fra inventività ed esperienza vissuta e sofferta. Che non sono solo quello del lirico (esso stesso cosí vario e non retto solo, fra Sepolcri e Grazie, dalla poetica del «mirabile e del passionato» con la loro diversa dosatura), ma del romanziere e del narratore (con quante versioni!), del grande epistolografo (folto di direzioni di sfogo e dialogo schietto «da uomo a uomo», di saggismo moralistico e filosofico, di narrazione autentica e disposta a nuovi progettati romanzi), dell’oratore politico, nella sua gamma di eloquenza alta, solenne e sin turgida o violenta e stringata, del prosatore latino satirico fino al sadismo feroce dell’Hypercalipsis, del prosatore didimeo e predidimeo, ironico, elusivo-allusivo e sin libertino (ad aforismi, a quadri, a lettere, a ramificazione di sentimenti sottilmente penetrati e analizzati), dello storico fra forme appassionate e trascinanti (gli scritti su Parga e la Lettera apologetica) o incisive e sobriamente aneddotiche come nella Vita di Pio VI, del tragediografo, tutt’altro che privo di tecniche autenticamente teatrali e insieme legato ad esigenze drammatiche profonde, del critico con il vario taglio e tono dei suoi saggi. Si pensi soprattutto alla incessante apertura – pur fra atti scrittorii decisivi e definitivi – di avvio di opere progettate, abbozzate, interrotte o riprese e aggiornate nel ritmo folto delle sue esperienze e occasioni, del suo costruire a strati, a intarsio, a spirale di temi e moduli artistici, e all’enorme massa di cultura e letteratura classica, italiana, europea non casualmente adibita all’espressione di propri autentici miti e motivi.

Ma tutto ciò (che qui è accennato specie in risposta a certe dure incomprensioni attuali del classicista marmoreo, frigido, provinciale, tutto chiuso nella Necropoli di un passato accademico, o spesso recentemente bloccato all’opera geniale dell’Ortis a cui seguirebbe solo involuzione e letteratura morta) si deve riportare saldamente a una dimensione storica, all’individuazione della persona concreta e storicamente valida, alla sua poetica in movimento, che commuta in direzione artistica e in direzione di miti poetici le esperienze e la massa dei suoi problemi dentro la viva, densa storia di quel «venticinquennio» dalla rivoluzione al crollo napoleonico e alla Restaurazione, dal cui seno emergono soprattutto i traumi essenziali di Campoformio e della caduta delle speranze giacobine, e poi del crollo napoleonico e dello svanire delle speranze indipendentistiche e civili che Foscolo legava all’utilizzazione «italiana» della forza armata e della gioventú intellettuale del Regno Italico da lui educata. Traumi questi su cui non si insisterà mai abbastanza per comprendere il cammino foscoliano e l’evoluzione della sua problematica, in concorso con la caduta del giovanile rousseauismo, al rafforzarsi del suo realismo e dolente storicismo (fino al fatalismo) nel crescente alimento vichiano, hobbesiano, lockiano e machiavelliano e quindi lo stesso progredire della sua involuzione liberalmoderata, e il crescere del suo duro giudizio sul quarto stato, dolorosamente sperimentato (per la sua misera condizione economica) mutevole strumento dei despoti demagoghi e delle classi reazionarie e confessionali (la base del Terrore robespierriano e soprattutto del sanfedismo e delle classi privilegiate[8]), ma da parte di un uomo segnato per sempre dalla rivoluzione: pupil of revolution, come egli si definiva, nel 1818, nel saggio su se stesso, e pieno di poussées democratiche e nostalgie per i governi popolari, nella costante avversione all’ancien régime e alla classe aristocratica e clericale, nell’avversione per la Santa Alleanza ricostruttrice degli antichi privilegi. Sicché poi nel sospetto dei vari dominatori il Foscolo rimarrà sempre una «testa calda» (come lo chiamava il Murat) o «un uomo pericoloso sotto ogni governo» (come lo chiamava il burocrate poliziesco austriaco Strassoldo[9], e come lo considerava il Metternich, suo accanito persecutore), con altissimo involontario elogio, specie in bocca a simili «tutori dell’ordine», per un vero intellettuale, sempre scomodo e pericoloso per il potere.

Cosí, a capire gli svolgimenti e le spinte intellettuali e politiche e lo stesso emergere e consistere della sua inventività creativa non separabili fra di loro, se non si vuol ricadere nella separazione idealistica della poesia dalla vita e dalla storia, è, a mio avviso, necessario tener conto spregiudicatamente dello svolgersi di una esistenza faticosa, in lotta ardua per le proprie ragioni di affermazione e per la ricerca di un proprio ruolo e sin di vera e propria sopravvivenza, resa difficile dallo stesso temperamento irrequieto, dagli sbalzi fra esaltazione e depressione personale (con vere e proprie nevrosi e una ipersensibilità meteoropatica tante volte denunciata dal Foscolo nelle lettere: «qui piove, piove, né spiove mai. O miseria dell’anima mia! Io me la sento annegata e infangata quante volte esco di casa», «giornata da suicidio»[10], e viceversa sobbalzi di vitalità all’apparire del sole e del clima asciutto[11]), resa difficile dal bisogno di agio, da certa megalomania egotistica, da pieghe edonistiche profonde (fonte in poesia di certo esplicito esercizio alessandrino, ma spesso rialzate esse stesse da una valutazione molto intima di certi piaceri schietti e incantevoli – specie nella loro associazione di piaceri profondi e minimi – nella loro espressione scrittoria: «Il passeggiare al sole, il dormire, l’amare e l’essere amato, il ciarlare al focolare con l’amico a quattr’occhi, e il sorseggiare il caffè guardando l’alba sorgente e ricordandosi dei begli anni passati non sono cose da poco!»[12]), resa difficile da un forte e a volte inarcato senso di sé e della propria dignità, dall’incrocio fra temerarietà imprudente e sottili disegni di politica personale poco produttiva, dalla irruenza dei vizi (il gioco d’azzardo) e di passioni amorose a volte causa di esiti assurdi (l’avventura febbrile e alla fine sordida con la Pestalozza in Svizzera): un uomo concreto e vivo nelle condizioni del temperamento, dell’esistenza, delle occasioni storiche, delle offerte della cultura, non un’anima poetica iperuranica senza rapporti con la realtà e invece quanto piú segnato da una fondamentale condizione di sradicato, tanto piú portato a tentare di radicarsi tenacemente in concrete situazioni della realtà e della storia.

Sradicato quanto a estrazione e collocazione nazionale (greco?, greco-veneto, greco-veneto-dalmata, veneziano, ma della colonia greca e greco-dalmata? donde il vagheggiamento delle proprie origini greche fino a riconoscervi una ragione della propria poetica e poesia e viceversa l’ondeggiare fra la sua condizione di veneziano e di esule «forestiero» a Milano, fra la sua appartenenza alla Repubblica Cisalpina, Italiana, al Regno Italico, e la piú ampia e dominante prospettiva di italiano a cui disperatamente si lega), sradicato quanto a unità familiare, da cui le vicende lo strappano violentemente fin dall’infanzia[13] e che invano tenta di riunire e di costituire con il matrimonio varie volte invano tentato e fallito per il suo ambiguo stato sociale, o riconosciuto (il caso della Giovio) o vanamente sopravvalutato (il caso della Russell), sradicato quanto a precisa estrazione e collocazione sociale (fra aspirazioni a origini patrizie e un ambiguo rapporto con il ceto medio sentito sí, secondo le sue parole, «in genere per certo la sezione piú morale e illuminata dell’umanità incivilita»[14] e appoggio del suo ideale di «mediocrazia» e di avversione alla grande sperequazione delle ricchezze, ma anche avversato nella sua spinta mercantile e avida e del cui senso pratico Foscolo è totalmente sprovvisto, diversamente dal Monti, con la sua ascesa sociale avveduta e sicura, di vero e proprio borghese), sradicato e ondeggiante nella sua condizione militare di cui – a parte la sconfitta pratica del suo blocco di carriera al grado di capitano aggiunto[15] superato in quello di capobattaglione solo nel breve periodo del crollo del Regno Italico – egli sentí sí la congenialità con il proprio spirito bellicoso e la possibilità di una necessaria stabilità economica, ma insieme la discordanza con la sua attività di studio e l’avvilimento di una dipendenza, di una servitú, di una «livrea», com’egli dice nelle Lettere d’Inghilterra, sradicato linguisticamente (donde l’ardua conquista del possesso pieno e sicuro della lingua e della letteratura italiana tutt’altro che istintivo e naturale), sradicato tanto piú nel lungo soggiorno in Inghilterra in cui tenta di inserirsi nella condizione di gentleman e di esquire, necessaria, secondo lui, al suo prestigio di scrittore, donde la rovinosa ricerca di un tono di vita dispendioso e disordinato insostenibile a causa del difficile necessario lavoro editoriale di fronte a un pubblico di altra lingua, mal posseduta, e quindi la miseria e la morte in miseria.

E viceversa bisognoso di radicarsi persino nell’ubicazione del sepolcro certo, nel luogo natale, a Venezia vicino ai tetti materni, in Italia e in luoghi come Firenze legati ai miti della sua poesia, fino al tentativo di radicarsi e di trovare identità certa nel suo ruolo di libero scrittore e nella sua stessa opera letteraria, nella certezza dello stile e nell’ansia del suo perfezionamento e della sua base di cultura ed erudizione certa. E insieme perseguitato dal senso di un destino di fuga, di errare di gente in gente cui si lega, in contrasto, il bisogno profondo di rapporti saldi di amicizia e di amore continuamente bruciati ed esposti poi alla verifica pessimistica e realistica (la vicenda Arese, l’amicizia fallita col Monti e con molti degli stessi giovani che piú non lo capirono dopo l’esilio).

E soprattutto, in suprema risposta alla sua condizione di sradicato, la volontà tenace di legarsi saldamente alla volontaria «patria italiana» e alla causa della sua indipendenza, al punto che egli potrà persino eccessivamente affermare nella Lettera apologetica (riassunto della sua vicenda e radicamento essa stessa nella propria storia di «italiano» contesagli dai letterati nemici a cui si rivolge) che «io mentre che sotto la vostra censura letteraria mi dibatteva piú sempre incalzato d’accuse di maestà, pur non tanto io mi studiava che tutte le mie scritture sotto apparenza di versi e romanzi e pedanterie di letteratura e di tattica e profezie e bizzarrie d’immaginazione corressero tuttavia a una meta politica e all’utilità dell’Italia»[16].

Sicché, nella volontà del comprendere storico-critico, va pur detto che questa appassionata volontà di stringere la sua attività molteplice di scrittore, cosí fertile di tensioni e di direzioni, ad uno scopo centrale storico-politico (essenziale del resto nel suo tempo: il tema della società nazionale fra origine giacobina e nuove spinte romantiche di varia connotazione ideologica tra un Fichte, un Hölderlin e magari poi un Büchner) deve essere fortemente sottolineata per intendere quello che mi pare il motivo propulsore non solo della sua attività di oratore e scrittore politico, ma della sua stessa poetica e del suo messaggio di scrittore, la forza e il limite, o meglio, il carattere della sua posizione entro la raggiera dei grandi scrittori tra fine Settecento e primo Ottocento (dopo Parini e Alfieri e prima di Leopardi e Manzoni). Che consiste nel rapporto fra l’accettazione virile (e pur dolente: «non secondo i miei desideri» egli dirà) dei limiti della storia, della realtà e della stessa reale condizione umana (che egli definirà, nel 1809, come la legge perentoria del «cosí è, cosí deve essere, e se non dovesse essere, non sarebbe») e l’intervento in essi (pur fra moti contrastanti di impegno e disimpegno, a sua volta corretto da un impegno piú profondo e pur con spiragli paurosi sulla vanità assurda della stessa realtà) cercando di allargarne dall’interno gli spazi, di fondarvi valori o valori-illusioni («celeste dote» e «pietosa insania» è chiamata nei Sepolcri la possibilità di una vita dei morti nell’attivo ricordo)[17] di «ristoro», di risarcimento, di compenso e consolazione, di «evocazione» come stimolo alla vita, ma senza volere e potere creare vere e profonde alternative. Come invece Leopardi – che pur tanto a lui deve, specie per il sistema delle illusioni e che vive in un’epoca successiva della storia, entro la quiete tetra della Restaurazione, non segnato come Foscolo dalle profonde impronte dell’esperienza rivoluzionaria – farà soprattutto al termine della sua profonda, consequenziaria diagnosi pessimistica intera, materialistica ed atea, nello scatto reattivo e nel pessimismo energico, protestatario-attivo della Ginestra e del suo messaggio pragmatico-poetico rivolto a tutti, fino al «vulgo» cui si deve tutta la verità, base di una nuova società interamente diversa, con conseguenze che nei due scrittori giungono fino alla loro diversa poetica e al loro diverso linguaggio.

Non si creda che, con questo paragone, si voglia ripetere, rovesciandola, l’operazione del Croce che esaltò indiscriminatamente la valenza positiva del Foscolo nel paragone con l’incompreso e avversato Leopardi: si vuole invece servirsene (ben tenendo conto di una diversità che non è solo personale, ma epocale) per meglio precisare del Foscolo la posizione storica, il modo di profonda immersione nella storia del suo tempo, la condizione di interprete, di collaboratore critico, di promotore della storia tempestosa che va dalla rivoluzione al crollo di Napoleone e delle speranze indipendentistiche sotto la grigia cappa della Restaurazione, quando la sua grande poesia significativamente crollerà, pur lasciando spazio ad altri modi di intervento e di attività intellettuale e scrittoria, tutt’altro che esaurita.

Perché il suo pessimismo, pur cosí profondo (si pensi alla lettera da Ventimiglia nell’Ortis, culminante nel grido lacerante «La terra è una foresta di belve», o a quel lacerto ricavato dai Frammenti su Lucrezio che fa pensare al giardino del «tutto è male» di Leopardi o alla meditazione incandescente di Julien Sorel, prima dell’esecuzione, nel Rouge et noir di Stendhal, e che culmina nella domanda all’uomo «Quale differenza da te alla formica ed a tutti gli altri animali? Conosci tu l’orrore in cui deve loro essere la vista dell’uomo? Tu passi frattanto e li calpesti»[18]), non è portato alle sue ultime conclusioni definitive e cosí non è in grado di fare scattare un’alternativa, troppo intrecciato com’è alle spinte di risposta positiva e continuamente risarcito, compensato piú che sviluppato fino all’estremo (lo stesso suicidio dell’Ortis è disperazione che sprigiona energie vitali e apre la strada ad altre riprese di intervento storico-poetico nella realtà: e cosí, in diversa situazione, è il suicidio dell’Ajace). Mentre l’intervento che pur apre spazi è troppo continuamente riconverso nella storia, per potere in qualche modo sfondarla su di un’onda «piú lunga» e piú aperta ad un lungo futuro.

Con ciò non si vuol certo limitare la varietà e la varia consistenza della sua grande arte e poesia che penetra nel seno del secolo XIX con una voce spesso nuovissima e modernissima, ma se ne vogliono indicare i caratteri personali-storici e la prospettiva stessa della sua poetica tesa a dare il massimo valore alla poesia, consolatrice, eternatrice e salvatrice, fino ad un primato che potrebbe suonare enfatico ed estetistico («E quando il Tempo con sue fredde ali vi spazza / fin le rovine, le Pimplee fan lieti di lor canti i deserti / e l’armonia vince di mille secoli il silenzio») e che invece va compreso dal seno di una posizione che esalta la poesia a risarcimento supremo dell’accertata miseria dell’uomo, dell’opera distruttrice della legge materialistica, delle ferite che la storia e la realtà infliggono a chi piú vi si immerge e vi opera. In maniera, d’altra parte, molto diversa dal contemporaneo Monti che dalla storia trae sí i suoi temi, ma nella prospettiva di uno scrittore che si sente solo veramente responsabile della sua bella forma che su di essi elabora, attratto dal genuino entusiasmo che suscitano in lui gli avvenimenti grandiosi (e vittoriosi!), ma senza vera personale sofferenza e senza incidenza profonda nella storia che poeticamente illustra[19].

Tutto ciò vale, ripeto, non solo per il movimento dell’intellettuale, del politico (di cui il primo significativo segno può trovarsi nel giovanile rimprovero ad Alfieri – in un intervento oratorio nella veneziana «Società di pubblica istruzione» nel ’97 – prima aggredito perché conclusivamente contrario alle idee rivoluzionarie, poi piú sintomaticamente tacciato di silenzio e invitato a prendere posizione comunque nelle gravi vicende del tempo[20]), ma per il movimento della sua poesia e della sua arte nel loro sviluppo dinamico, nel loro procedere nella storia (non a caso le cime alte della sua poesia sono legate a datazioni essenziali nella storia e nei rapporti fra storia e vicenda personale), che dà tanto diverso valore alle sue singole opere nel loro sgorgo entro questo processo incessante e del resto tutt’altro che meccanicamente ripetitivo e invariabile. Cosí come, d’altra parte, il suo pensiero, la sua cultura, le sue prospettive sono sí caratterizzate da una problematica conflittuale, a volte fino al limite dell’ingorgo e al turgore espressivo mal decifrabile, specie se misurato globalmente, ma tale problematicità è invece meglio spiegabile e comprensibile nella sua natura e nel suo valore se vista nel suo svolgersi.

Difficile è cosí definire globalmente la sua prospettiva politico-sociale, mossa dopo le avanzatissime posizioni giacobine sconfitte verso esiti moderati, ma irrequieti e tramati di continue nostalgie di quella rivoluzione delle cui impronte Foscolo è indelebilmente segnato, mentre piú produttivo è cogliere questa problematica nelle sue relazioni con la storia e con lo scopo politico indipendentistico. Sicché, ad esempio[21], la sua stessa presunta e definitiva prospettiva neoguelfa sarà meglio valutata nella piú ravvicinata considerazione del suo storico e strumentale significato: l’esaltazione di Gregorio VII nel celebre articolo censurato dell’11 è, al momento della maggior potenza dell’egemonia napoleonica, in funzione dell’esaltazione della forte personalità del personaggio «italiano» in lotta con i potenti stranieri («né si può contendere ad Ildebrando certa virtú virile e magnanima, spesso fanatica, talvolta superstiziosa, ma non ipocrita mai: tanto in lui la natura prevalse all’educazione monastica e all’istituto della sua vita»)[22] e la riforma della Chiesa cattolica in un ritorno ad un cristianesimo evangelico è vista soprattutto – specie nei Discorsi sopra la servitú dell’Italia del ’15 – come una possibile potenzialità attiva nella storia italiana che soprattutto preme a Foscolo far valere in quell’esame delle ragioni della servitú italiana e quindi come considerazione di utilità nazionale, che non implica una adesione personale di cristiano riformatore da parte di chi, come Foscolo, è sostanzialmente estraneo alla prospettiva cristiana pur distinguendo nettamente fra «cristiano» e «cattolico» e avversando soprattutto il cattolicesimo come degenerazione del cristianesimo fino alla piú aborrita estremizzazione del gesuitismo.

Cosí difficile rimane pur sempre definire la sua intera visione filosofica fra materialismo, pessimismo sin deterministico anche se dolente («Ah purtroppo! Tutta la forza della nostra filosofia, tutta la forza dell’anima nostra risiede nelle forze dei nostri muscoli, del nostro cuore di carne e del nostro cervello tal quale le dita della natura l’hanno impastato»[23]), dubbi sulla natura madre o matrigna e viceversa aperture a un senso dell’armonia dell’universo e a una creatività dell’io umano (con spinte romantiche e idealistiche). Ma meglio se ne spiegherà la reale consistenza (pur sempre piú problematica che risolutiva) se si esamineranno tali termini di contrasto (essi stessi spesso produttivi al massimo livello poetico: si pensi ai Sepolcri, al loro contrasto dinamico che si traduce nel metodo poetico del chiaroscuro) entro la storia del poeta e la storia culturale e politica del tempo. Sicché lo stesso tono sacro, certo linguaggio di impronta religiosa non può far pensare (nelle situazioni precise dell’Ortis, dei Sepolcri, delle Grazie e di altre opere) ad un appello o a nostalgie di tipo trascendente, ma viceversa ad una volontà (variamente scandita e motivata) di un recupero del sacro in un cielo tutto umano e mondano, quasi di una riappropriazione da parte dell’uomo, in vari modi, di qualità che gli uomini hanno demandato alle divinità da loro create (il montaggio-smontaggio delle donne-dee nell’Ode all’Arese, la divinizzazione degli uomini e l’umanizzazione degli Dei come nella Chioma di Berenice, nella quale si esclude la mitologia cristiana dalla possibilità della poesia perché troppo opposta alle vere mondane passioni degli uomini). Un sacro che è poi l’autentico e l’intimo degli uomini e il loro modo di sentire gli aspetti piú intatti e immacolati della natura. Come, su altri livelli, sacra è per Foscolo la loro lealtà e indipendenza, sacra è la poesia, sacri e sacerdoti i poeti, sacro è tutto ciò che riguarda la patria, i suoi eroi, le sue tradizioni, sacro è il sacrificio della vita per la patria e per la «divina» libertà.

E la stessa sacralità e la nuova religione dei sepolcri è un modo saldamente laico di strappare anche la morte alla Chiesa cattolica, di strappare la gioventú, oggetto delle sue cure, all’educazione cattolico-gesuitica che secolarmente avrebbe per Foscolo contaminato l’educazione dei letterati sviandoli alla frivolezza delle Arcadie e al servizio dei potenti. E del resto lo stesso carme dei Sepolcri crollerebbe se Foscolo non vivesse profondamente una netta chiusura ad una doppia realtà, se non considerasse il sonno della morte inesorabilmente «duro» («sonno profondissimo senza sogni»[24] dirà, a scanso di equivoci, in una lettera al Giovio), sol cosí potendo sviluppare in sublime crescendo la religione tutta laica e mondana delle tombe, la sacralità della patria e dell’eroismo, della poesia eternatrice nel supremo impeto lirico che tanto piú alto risuona quanto piú si oppone a certezze e speranze ultraterrene e si svolge entro i limiti della caducità e della legge materialistica dell’annullamento individuale.

Sicché di nuovo si rafforza l’esigenza di una interpretazione intera dell’opera foscoliana, ma nel suo sviluppo e nell’attrito con la storia mutevole e drammatica del suo tempo, conflittuale e tormentata essa stessa in sede politica, culturale, letteraria, cosí meglio seguendo e in miglior modo comprendendo gli stessi nodi problematici del suo complesso e spesso complicato pensiero: nodi che poi non sono affatto risolti (come di solito si dice con una scappatoia troppo facile) dalla poesia e dal suo miracoloso intervento, ma che nella poesia portano il loro attrito e cosí la potenziano, la dinamizzano, le dànno il suo significato interno e dinamico, mentre poi la poesia riconverge sollecitante nella intera problematica in svolgimento.

Tale interpretazione si potrà realizzare solo in una nuova monografia che intrecci continuamente le vicende personali, la storia, la problematica del politico, dell’intellettuale, dello scrittore, la sua poetica in movimento, nelle varie angolature dei suoi interventi storico-poetici. Ma di tale svolgimento in questa sede non posso dare neppure uno schema rattratto, limitandomi perciò a soffermarmi brevemente sulle Grazie e sul loro arduo ed aperto problema. Dopo la creazione possente dei Sepolcri, nella consolidata situazione del Regno Italico e dell’egemonia napoleonica (all’epoca di Wagram) il Foscolo interviene nella storia italiana con l’alto magistero pavese, delineando una figura e pratica dell’intellettuale-letterato che, pur con il precedente alfieriano, appare ben nuova nella nostra storia moderna (coscienza e responsabilità dello sviluppo delle proprie facoltà naturali e del proprio impegno specifico nella parola, ma in relazione all’utilità socionazionale di contro alla letteratura conformistica, cortigiana, venale) e insieme (specie nella formidabile orazione Sull’origine e i limiti della giustizia) vigorosamente demistificando le astratte teorie giusnaturalistiche e illuministiche alla luce della realtà e delle sue ferree (anche se dolorose) leggi, trovando la giustizia (indarno cercata, nella sua purezza, nelle varie epoche della storia) solo se basata sulla forza e cosí contribuendo all’educazione della futura élite «italiana» con l’aspra lezione della dura realtà.

Dopodiché la forza poetica e problematica foscoliana giungerà al cuore stesso del dramma politico-storico del tempo (e attraverso questo al dramma generale degli uomini) quando nell’11 (durante i preparativi della campagna di Russia) egli scriverà (ultima sua grande opera poetica organica e capolavoro cosí a lungo misconosciuto) la tragedia Ajace, in cui un supremo ingorgo di realismo pessimistico (il circolo vizioso di libertà, licenza, nuova tirannide, l’anello stretto dell’insopprimibile istinto ferino dell’uomo, «animale sopraffattore e guerriero», spezzato dal protagonista – proiezione dell’autore – solo con l’inorridito suicidio) prepara per reazione – ma anche con l’offerta di una apertura positiva nella voce di Tecmessa, portatrice dei valori compensativi del pudore e della compassione – il supremo diverso intervento delle Grazie, culmine e crollo della grande poesia foscoliana[25].

In queste (a Firenze, dopo l’abbandono, fra volontario e imposto, di Milano, a causa anzitutto della proibizione di nuove rappresentazioni dell’Ajace, cosí allusivo alle vicende napoleoniche, e della lunga lotta dei letterati cortigiani contro di lui) si incontrano (non con dura dicotomia, ma anzi entro un fluido intreccio complesso di tensioni e livelli) una direzione, che sale fino dal falso dei frammenti presentati come tradotti dal greco nella Chioma di Berenice del 1803, da un progetto del 1808 («un inno alle Grazie ove saranno idoleggiate tutte le idee metafisiche sul bello»[26]), da spinte esistenti nell’impegno totale di forze dell’Orazione inaugurale («la fantasia crea le Grazie e le accarezza»[27]), da meditazioni teorico-estetiche appoggiate a una vasta raggiera di letture di teorici italiani e stranieri, e che si dispone in un’angolatura di disimpegno dalla storia e dalla politica, e trova prevalente impiego[28] nella prima impostazione delle Grazie in un inno unico (nell’agosto-settembre 1812) e motiva cadute estetistiche anche posteriori, e invece una dimensione di alto equilibrio penetrata e sorretta dal rinnovato incontro con la storia e la politica che piú profondamente e produttivamente si realizza – dopo che con la Ricciarda la direzione del disimpegno trova risposta eccessiva e ossessiva e scarica il nuovo e brusco impeto drammatico, e dopo che viceversa la nuova completa stesura della versione del Viaggio sentimentale di Sterne e la Notizia intorno a Didimo Chierico agevolano una situazione sentimentale e una disposizione espressiva piú adeguate – nella primavera del ’13, a Bellosguardo.

Quando il Foscolo vive concretamente una propizia situazione di rapporto fra solitudine e civile, gentile socievolezza, mentre gli giungono le notizie del disastro di Russia, della morte di giovani amici in quella campagna, delle battaglie difensive della Grande Armata e della distruzione del corpo di spedizione italiano (quei giovani italiani armati su cui egli aveva tanto contato per il suo disegno indipendentistico). Cosí il poeta può riprendere e approfondire il tentativo piú ambizioso e rischioso della sua carriera poetica in una zona fervidamente creativa, occupata appunto dal lavoro delle Grazie fino alla partenza definitiva da Firenze, nel novembre 1813[29]. Ché – come sarà confermato dall’edizione nazionale, ora curata dallo Scotti sulla base del lunghissimo lavoro del compianto Pagliai – dopo quell’epoca il lavoro delle Grazie sarà continuato solo in alcuni periodi del ’14 nella faticosa stesura del viaggio delle api febee, per non esser piú ripreso se non in Inghilterra, nel ’22, quando è scartata definitivamente l’ambizione poematica, e brani delle Grazie, pur approfonditi e completati (con vera e rinnovata forza poetica, anche se di breve durata), vengono inseriti nella Dissertation legata alla illustrazione del gruppo canoviano posseduto dal duca di Bedford, con il ritorno al falso dei frammenti tradotti da un antico inno greco.

Nella situazione e dimensione di quella primavera, la nuova impresa poetica si configura sempre piú (nel tentativo di completamento dell’inno unico e nel passaggio al poema in tre inni, che insieme complica la difficile organizzazione delle Grazie) come una nuova forma di intervento con la poesia nella storia, nella realtà, nella condizione umana per ingentilirne e incivilirne gli atavici, profondi istinti belluini e passionali, allargando gli spazi del «cosí è» con un incessante impiego delle virtú «compensative» di cui le Grazie, per mezzo delle arti, sono portatrici, esse stesse continuamente esposte all’aggressione di quegli istinti mai interamente sopiti.

È il massimo tentativo di intervento concesso alla prospettiva foscoliana, esso stesso insidiato dalla piega piú evasiva e compiaciuta, edonistica e alessandrina che, ripeto, meno però si fa sentire esplicitamente quando emerge la nuova dimensione di profonda misura e di profonda tensione, del supremo equilibrio entro cui penetrano le voci della storia e della realtà e ne tendono il livello piú alto ed intenso.

La via delle Grazie non può quindi configurarsi né nella vecchia interpretazione puristico-ermetica di poesia «pura» e privata o in nuovi ritorni di fatto alla condanna desanctisiana, né nell’interpretazione recente e affascinante, ma, a mio avviso, non convincente del Masiello[30], che vede il poema incompiuto come decisa alternativa intera al sistema napoleonico, alla nascente società borghese, alla guerra che domina quell’epoca, poesia tanto piú oppositiva quanto piú di nuovo affermata nella sua qualità di poesia totalmente pura e (malgrado le opposte intenzioni e direzioni) cosí effettivamente speculare alla interpretazione del periodo idealistico e puristico-ermetico e dei loro non assenti epigoni.

Le Grazie, a mio avviso, non sono cosí pure e insieme cosí oppositive e interamente alternative. Esse sono piú complesse e insieme divise nella loro frammentaria ed episodica consistenza, nel loro divenire incompiuto, e corrispondono al massimo sforzo dell’intervento storico-poetico foscoliano nel suo particolare modo di dilatazione dei limiti della realtà e della storia. Proprio quei riferimenti storico-politici che già apparvero, in zona idealistica e puristica, come note marginali e polemiche, disturbatrici rispetto alla poesia della «pura armonia», sono i segni di un impegno e intervento che indicano la piú alta direzione delle Grazie, ne sostengono gli avvii piú profondi, ne alimentano la grandezza in tanti episodi, ne rafforzano la prospettiva piú ambiziosa penetrando nella viva tensione all’armonia e rendendola veramente arcana: la parola che mancava nella definizione della poetica dell’«armoniosa melodia pittrice» nelle stesure dell’autunno del ’12.

Proprio dalla profonda sensibilità alla storia che penetra nell’alta misura di una condizione e di una poetica che non mira alla lirica eloquente e al «fare sublime» dei Sepolcri, ma appunto ad una tensione nella misura profonda (e cosí coerentemente regola procedimenti piú di similitudini che di passaggi fulminei e densi, e un linguaggio «fluido e pervio», cristallino e germinante di allusioni arcane), nascono le punte poetiche piú vibranti e sicure. E la tensione a zone, in cui si condensano le condizioni umane e naturali portate alla loro perfezione, è resa attuabile proprio dallo slancio dinamico creato dall’abbrivo storico e politico.

Come avviene nel grande episodio dell’abbandono della terra da parte di Minerva e della sua ascesa con le Grazie e le dee minori all’Iperuranio dove verrà tessuto il velo delle Grazie, in cui la creazione di quel regno superiore che vuole eternizzare le condizioni piú armoniche e vitali della realtà non avrebbe forza e possibilità di esistere se non fosse promosso dallo slancio precedente, esso stesso tanto intensamente poetico e tanto legato alla storia vissuta dolorosamente dal poeta (riepilogo alto dei suoi scacchi e dei suoi ideali irrealizzati: guerra napoleonica di Russia e rivoluzione francese, sorte sventurata dell’Italia):

Onde, qualvolta per desio di stragi

si fan guerra i mortali, e alla divina

libertà danno impuri ostie di sangue;

o danno a prezzo anima e brandi all’ire

di tiranni stranieri, o a fera impresa

seguon avido re che ad innocenti

popoli appresta ceppi e lutto a’ suoi;

allor concede le Gorgoni a Marte

Pallade, e sola tien l’asta paterna

con che i regi precorre alla difesa

delle leggi e dell’are, e per cui splende

a’ magnanimi eroi sacro il trionfo.

Poi nell’isola sua fugge Minerva,

e tutte dee minori a cui diè Giove

d’esserle care alunne, a ogni gentile

studio ammaestra: e quivi casti i balli,

quivi son puri i canti, e senza brina

i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno

sempre, e stellate e limpide le notti.

O si guardi direttamente al grande brano della viceregina e al suo culmine nei versi di solenne e scandita marcia funebre per la morte di un eroe:

Tutto il cielo t’udia quando al marito

guerreggiante a impedir l’Elba ai nemici

pregavi lenta l’invisibil Parca

che accompagna gli eroi, vaticinando

l’inno funereo e l’alto avello e l’armi

piú terse e giunti alla quadriga i bianchi

destrieri eterni a correre l’Eliso.

Versi tutti intessuti di riferimenti alla situazione della primavera del 1813, alle sorti del viceré (che ormai combatte in difesa e non in offesa: il vallo sull’Elba, la battaglia di Bautzen) e alle sorti del Regno Italico ancora visto dal Foscolo come oggetto delle sue inquiete speranze, pur nel dolore cocente dello sterminio dei giovani italiani in Russia, che vengono ora significativamente ricordati, nella ripresa e adattamento storico in quell’episodio di alcuni versi dell’Ajace (la lotta di Ajace contro un assalto troiano), resi tanto piú vibranti di un profondo trauma storico-personale, con l’evocazione della lotta difensiva del viceré sull’Elba di fronte allo Scita che invade terre non sue oltre la Neva e cosí (come il Foscolo, non «pacifista», dice altrove nelle Grazie) trasforma la sua guerra giusta in guerra ingiusta di conquista[31], e con il finale quadro di squallore della ritirata della Grande Armata e del corpo di spedizione italiano:

sul deserto de’ ghiacci orridi, d’alto

silenzio e d’ossa e armate esuli larve.

O nel lungo eccezionale brano fantastico sull’Erinni (prova alta di un neoclassicismo singolarissimo di sapore europeo, vicino a tanta alta poesia del cosiddetto romanticismo ellenizzante), che a un certo punto Foscolo pensò di adibire addirittura a un paragone in relazione alla immaginata descrizione dell’incendio di Mosca, si noti l’attrazione stimolante che quel brano subisce da parte dell’ossessivo motivo attuale della guerra di Russia e del massacro della gioventú italiana:

Quinci l’invida Dea gl’inseminati

campi mira, e dal gelido Oceàno

a’ nocchieri conteso: ed oggi forse

per la Scizia calpesta armi e vessilli

e d’itali guerrier corpi incompianti...

Il pensiero dei «giovinetti per la patria estinti» e per la sorte dell’Italia «afflitta da regali ire straniere» (cui sono ora destinati gli inni del poema), il senso dell’incalzare della guerra verso l’Italia («cosí imminente ormai freme Bellona»), l’ossessione delle «ossa fraterne» insepolte nelle guerre che stanno per toccare l’Italia («ch’io non le veggia almeno or che in Italia / fra le messi biancheggiano insepolte») alimentano di questa essenziale passione storico-politica la poesia delle Grazie.

Mentre il Foscolo si configura nel suo ruolo di poeta dalla «sdegnosa lira», nella sua missione di poeta non cortigiano, che «fa bello» il «lauro» solo «quando sventura ne incorona i prenci» (e «le dive mie sdegnan chi a’ fasti di fortuna applaude»), responsabile della riabilitazione di una grande poesia che, venuta di Grecia in Italia, ora misera ostenta i doni delle Grazie e oblia il loro nume (e cioè la santità incontaminata della poesia non mercenaria e non conformista e non solo la sicurezza della forma).

Tutta la direzione piú nuova e profonda delle Grazie è cosí legata alla profonda evocazione della realtà storica contemporanea. Realtà storica colta in alti momenti di poesia e disseminata nelle Grazie come segno tutt’altro che laterale e marginale di una prospettiva che interviene nella storia e risponde alla storia come primo, significativo livello di una poesia insieme vibrante del profondo Leitmotiv della condizione umana, della sua sorte di caducità e di sventura, limite di una realtà umana universale entro cui il Foscolo scava per costruirvi un comportamento umano dignitoso e non impulsivamente aggressivo o viceversa atterrito («e men tremanti al grido che li promette a morte») o per farne risuonare l’elegiaco e virile richiamo di una visione pessimistica di fondo, non elusa, ma filtrata in quel cerchio alto di sentimenti nobili ed educati dal senso piú profondo del mito delle Grazie confortatrici in una vita personale e interpersonale meno istintiva e violentemente passionale e ferina. Si ricordi almeno, in proposito, l’endecasillabo che riepiloga tutta la sorte caduca degli uomini:

E dopo brevi dí sacri alla morte

che par bene, su questo tema dolente, indicare la via della poesia foscoliana piú alta e matura in questo verso altissimo per capacità sintetica, incrinato dallo squillo sommesso del brevi dí e tutto percorso dalla vibrazione sacra[32].

Da questo senso sempre presente della sorte degli uomini nasce anche l’impresa di fermare ciò che è destinato a invecchiare e sparire, con quel senso piú profondo della «beltà fugace» che richiama tanta poesia europea neoclassica romantica, nella zona fra Schiller e Hölderlin, fra Keats e Shelley, e quindi sottolinea la pertinenza della poesia delle Grazie a una prospettiva poetica che di tanto supera il neoclassicismo corrente in Italia, esplicitamente avversato nella lunga lotta contro i pittori-professori e i frigidi regolisti del «bello ideale», e di tanto supera lo stesso grande e ammirato Canova che qui s’invoca a scolpire le tre donne ministre delle Grazie descritte dal poeta:

e tu potrai lasciarle

immortali fra noi, pria che all’Eliso

su l’ali occulte fuggano degli anni.

Né certo a caso il grande episodio del velo si apre con la figura luminosa-malinconica della giovinezza destinata al declino, alla vecchiaia, alla morte e si chiude con quello della giovane madre che piange al vagito del suo primo figlio lattante credendolo presagio di malattie e di morte, mentre lo è di una vita destinata al dolore:

Beata! ancor non sa quanto agli infanti

provido è il sonno eterno, e que’ vagiti

presagi son di dolorosa vita.

Con ciò non si vuol certo perder di vista, nella sua forza autentica e nell’interrelazione con la spinta di fondo indicata, la componente di quella tensione all’armonia che si basa su di un’aspirazione profonda e ardua del Foscolo (armonia dell’universo e armonia dell’uomo, superiore equilibrio che domina ogni moto scomposto e tenta di vincere l’«aspra disarmonia» delle cose umane) e trova condizione propizia nella situazione personale del tempo di Bellosguardo e che, tanto piú nel raccordo diretto e indiretto con i segni storici, trova modo di realizzare poeticamente una acuta penetrazione – con forti componenti di base sensistica e capacità a lor modo conoscitive – negli strati piú profondi e complessi dell’animo umano: una voce interiore ed arcana che anima i paesaggi, la realtà naturale e civile (i paesaggi fiorentini, i lucidi teatri, i paesaggi lombardi con il sussurro di mille pioppe aeree, il paesaggio greco ricostruito con l’evocazione scura e potente della Grecia preistorica con i suoi uomini ferini e cannibali, e quella dei luminosi quadri della Grecia incivilita da Venere e dalle Grazie), una voce energico-vibratile che apre spazi ad una vita interiore complessa e sensibile-arcana, ma tutta umana e mondana, e ritrovata e creata nel rapporto con la natura (il brano della fiamma di Vesta) o nelle zone piú interne dei sensi e dell’animo umano, come nella similitudine della vergine romita che, vagante e mai collocata nel poema in fieri, fa anche capire il modo di lavoro delle Grazie, il profilarsi di similitudini come ponti lanciati senza predeterminato approdo, e dunque una creatività che anticipa e travolge spesso i disegni poematici continuamente mutevoli e pur tutt’altro che privi di nessi riflessivi e prepoetici con la poesia realizzata:

Come nel chiostro vergine romita

se gli azzurri del cielo e la splendente

Luna e il silenzio delle stelle adora,

sente il Nume, ed al cembalo s’asside,

e del piè e delle dita e dell’errante

estro e degli occhi vigili alle note

sollecita il suo cembalo ispirata,

ma se improvvise rimembranze Amore

in cor le manda, scorrono piú lente

sovra i tasti le dita, e d’improvviso

quella soave melodia che posa

secreta ne’ vocali alvei del legno

flebile e lenta all’aure s’aggira...

Cosí incompiuta com’è e impossibile a compiersi nella irrequietezza degli schemi poematici e nell’incontro di direzioni non sempre fuse, la poesia delle Grazie vive come il crollo della potenza organica del Foscolo, come il culmine della sua poesia sia per la qualità delle sue cime, sia per l’orientamento, fra loro connessi, di un supremo intervento nella storia del tempo, e nella storia degli uomini, esso stesso consapevole dei limiti realistici in cui tale intervento può compiersi: aiuto alla vita e alla storia, non alternativa intera.

Ma questo sforzo e questo fervore creativo e questo incontro di misura e di tensione hanno un termine: Marte «bramasangue» e la «propria dignità», la passione per la sorte del Regno Italico e le passioni amorose piú «agitanti» che «eccitanti» richiamano Foscolo a Milano e lo riimmergono direttamente nell’azione e nella tempesta della storia e del suo animo.

E tuttavia, dopo l’attività convulsa del ’13-14 a favore di una possibilità d’indipendenza del Regno Italico, anche oltre l’esilio (atto ben alto quanto piú si consideri nelle stesse umanissime incertezze che lo precedono) il Foscolo prosegue nel suo lavoro e nella sua «lotta» (cosí egli la chiama) mediante il lavoro, nel grigio e livido periodo svizzero (da cui salgono le note appassionate dei Discorsi della servitú d’Italia e l’originalissima aggressione, fino al sadismo, dell’Hypercalipsis ai letterati italiani e a tutta una intellettualità responsabile prima delle sventure italiane) e poi nel lungo periodo inglese, nelle sue alternanze di successi nell’affermazione personale e nel suo ruolo di grande scrittore italiano ed europeo e di umilianti sconfitte che aggravano certo suo fatalismo, ma non fiaccano la sua volontà di intervento nella storia della Restaurazione e nel recupero della passata storia d’Italia, con atti scrittorii e totali di alta qualità letteraria ed envergure storico-politico-culturale, e con la nuova filologia e con la nuova critica, spesso ingiustamente depressa a livello europeo, e invece cosí ricca di nuove forme di attenzione altamente sociologiche e storiche e di capillare sensibilità stilistica, incentrate in una prospettiva radicalmente unitaria.

Né, proprio negli ultimi anni, la poesia manca di farsi ancora luce (dopo l’estremo intervento sulle Grazie nella Dissertation del ’22) attraverso l’ultima grande stesura del ’26 della versione omerica, cosí verde, vigorosa, quasi brusca, anche se nel margine del tradurre-creare, mentre la critica raggiunge il suo vertice nel Discorso dantesco, la storia raggiunge la sua massima penetrazione nella Storia della costituzione veneziana[33], e la Lettera apologetica riassume potentemente la vicenda foscoliana nella storia del suo tempo e ripropone la sua alta figura e nozione di intellettuale-scrittore.

Solo nell’aggravarsi della malattia, negli ultimi mesi di vita, l’estrema revisione del sonetto autoritratto del 9 maggio 1827 denuncia pateticamente una stanchezza estrema derivata dalla lotta inglese e da quella di tutta una vita. L’ultimo verso del sonetto che fino allora, nelle sue numerose stesure dal 1801 in poi, aveva sempre associato «fama» e «riposo», viene ora definitivamente risolto in un’unica e precisa direzione:

E sol da morte aspetterò riposo[34].

Quell’estrema rinuncia alla fama e quell’unica avida brama di riposo sono ben il corrispettivo di una vita logorata nel lavoro e nello sforzo di un’incessante serie di interventi nella storia e nella realtà.

Di questo modo di intervento storico-poetico oggi ho inteso rilevare il senso profondo, il significato nella storia e nella letteratura del suo tempo, la radice di tanta arte e di tanta grande poesia, ed anche la lezione che ne deriva di sofferta dignità, di un’indipendenza personale mai scompagnata da una sua utilità sociale, del rifiuto del carattere frivolo, conformistico, mercenario e privatistico dell’intellettuale-scrittore.

E come non ricordare in proposito, a conclusione di questo discorso, quanto il Foscolo dice, proprio nell’ultimo lavoro dantesco, con un pensiero vissuto e personalmente attuato, sulla totalità umana della vera arte, sull’atto sintetico dell’operazione artistica in relazione a tutte le forze dell’uomo?: «Certo ad ogni pensiero ed immagine che il poeta concepisca, ad ogni frase, vocabolo o sillaba che raccolga, muti e rimuti, esercita a un tratto le facoltà tutte quante dell’uomo»[35].


1 È il testo, rivisto e annotato, del discorso da me tenuto (con il titolo, ora cambiato, di Foscolo oggi: proposta di una interpretazione storico-critica) ad apertura delle celebrazioni foscoliane – all’Accademia dei Lincei e alla presenza del presidente della Repubblica, Sandro Pertini, il 18 ottobre 1978 – promosse dal Comitato nazionale foscoliano da me diretto (presidente d’onore del comitato Eugenio Montale), per iniziativa del Ministero dei Beni culturali.

2 Edizione presso l’editore Le Monnier di Firenze, impostata da Michele Barbi e diretta a lungo da Mario Fubini. Dopo la morte del Fubini (1977) l’edizione verrà completata sotto la mia direzione.

3 Si pensi, ad esempio, al sonetto Meritamente però ch’io potei e ai paesaggi liguri del viaggio ai confini d’Italia nell’Ortis 1801-1802, con precedenti di paesaggi aspri e montuosi della parte finale dell’Ortis 1798 e insieme alle reali vicende della vita militare del Foscolo. Il tutto poi anche ispirato alla ripresa di aspri moduli delle rime alfieriane come nel sonetto Per la certosa di Grenoble.

4 Opere, Ed. Naz., vol. V, p. 377. E si legga tutta la Lettera al Lettore, in «Paragone», 1958 e poi Milano 1965.

5 In «Paragone», 1959 (poi in volume, Milano 1967).

6 Quale io già ponevo alla fine della parte storica del mio libro Foscolo e la critica, Firenze 1957.

7 Si pensi in particolare al volume di P. Ariès, L’homme devant la mort, Paris 1977 (che interessa per i Sepolcri anche per l’attenzione alle leggi cimiteriali francesi e al loro substrato ideologico nell’epoca fra l’ancien régime, la rivoluzione, il Direttorio e l’Impero, utilizzate direttamente nei confronti dei Sepolcri da L. Sozzi nel saggio I «Sepolcri» e le discussioni francesi sulle tombe negli anni del Direttorio e del Consolato, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1967, su cui si vedano le osservazioni di P. Fasano nella relativa recensione in «La Rassegna della letteratura italiana», 1968 e poi in Stratigrafie foscoliane, Roma 1974).

8 Si ricordino appunto le esperienze brucianti della «plebe» e del «vulgo» da parte del Foscolo, specie all’altezza dell’invasione austro-russa e poi del crollo del Regno Italico: ma si noti che spesso il «vulgo» è connotazione elitaria piú intellettuale-morale che sociale, tanto piú dispregiativa perché priva di costrizioni economiche e di limiti di istruzione. Del resto, al limite e non certo per accettare positivamente la dura posizione foscoliana (cosí diversa da quella di alcuni giacobini e utopisti, malgrado tutto, resistenti alle delusioni, cosí diversa poi da quella del Leopardi), si può dire davvero che valga di piú nella storia dell’Ottocento il populismo, spesso assai «peloso», di tanti letterati e intellettuali romantici di indirizzo moderato e cattolico-spiritualistico? L’aspra posizione foscoliana aveva almeno il vantaggio di avviare una conoscenza realistica, pessimistica e demistificatoria che avrebbe potuto contribuire ad una impostazione diversa da quella degli interessati borghesi umanitari per loro ragioni ben chiare di affermazione e di egemonia sulle stesse classi subalterne vagheggiate nelle loro «virtú» per poterle piú agevolmente utilizzare.

9 Per la frase dello Strassoldo, anche nel testo tedesco («ein gefährlicher Mensch unter jeder Regierung»), si veda U. Foscolo, Epistolario, Ed. Naz., vol. IV, p. 584, e lo scritto di G. Gambarin, Foscolo e l’Austria, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1963 (ora in G. Gambarin, Saggi foscoliani, Roma 1978).

10 Al Bottelli, 27 novembre 1807 (Ep., II, p. 307). «Giornata da suicidio» e «città da suicidio» (Milano piovosa e nebbiosa) ricorrono molte volte nell’epistolario dal carteggio Arese alle lettere alla Martinengo.

11 Cosí, fra tante, la lettera al Brunetti del 10 gennaio 1809 (ibid., III, pp. 14-15) in cui accusa lo scirocco della propria inerzia intellettuale e poi cosí motiva il ritorno dell’«estro»: «Appena ho potuto leggere: oggi solo l’estro è tornato, ed è tornato col freddo asciutto e col Sole».

12 Al Grassi, 28 gennaio 1811 (ibid., V, p. 420). II brano è tanto piú rivelatore di un edonismo alto e temperato nel legame con il resto che segue, cosí severo circa le passioni misere dei letterati nel senso negativo che la parola bivalente ha nel Foscolo.

13 Donde la luce ferma e radiosa, amara e veemente, espansiva e concentrata che si appunta sulla famiglia unita ai tempi della fanciullezza in occasione delle feste natalizie nella bellissima lettera alla Martinengo (scritta in una giornata simile passata in solitudine) del 4 gennaio 1808 (Ibid., II, p. 332) di cui do qui il brano piú intenso: «Non v’è giorno né sera ch’io mi ricordi delle dolcezze della mia famiglia e del tetto materno con amarissima tenerezza e con desiderio veemente quanto la vigilia del Natale che mi ricorda la cena fra’ miei parenti e le gioie fanciullesche, e la contentezza di mia madre nel vedersi i figli d’intorno a lei, e l’illuminazione di tutta la tavola e il panattone e tutte l’usanze famigliari».

14 Si veda il capitolo sul Parini nel Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia, in Opere cit., XI, parte II, p. 502 e in inglese p. 416 («the middling classes of society, which generally speaking, are certainly the most moral and most enlightened portion of civilized mankind»).

15 Nel suo fallimento di ascesa anche nella carriera militare poté pesare, oltre alle prevalenti ragioni di sospetto politico, anche la non appartenenza alla massoneria (Monti vi appartenne e vi trovò appoggio ed avallo fino alla sua collaborazione con gli Austriaci) particolarmente potente nelle istituzioni della Repubblica Cisalpina e Italiana e del Regno Italico e specie nell’esercito (si veda in proposito la lettera alla Bignami – Ep., III, pp. 3-4 – del 1809, senza data di giorno e mese, circa il suo isolamento, perché non massone) fra gli ufficiali della spedizione in Francia che quasi tutti «insanivano per fabbricare senza fondamenti».

16 Lettera apologetica, in Opere cit., XIII, pp. 11, 140.

17 Quanto al logoramento, col tempo, di questo attivo ricordo e quasi compresenza dei morti ai vivi, si ricordi l’amara conclusione della lettera a G.B. Giovio (del 28 settembre 1813, Ep., IV, p. 376) in rapporto alla morte del figlio di questi, Benedetto, e al suo ricordo in Foscolo e nel fratello Giulio: «e io e mio fratello lontani da Como o vicini avremo Benedetto per vivo, sempre, e amico nostro, e consolatore, e compagno e partecipe de’ nostri affetti; e quando poi, pur troppo, ci accorgeremo ch’egli ci manca e che la sola illusione ci ha consolati, allora noi lo sospireremo con mestissimo desiderio».

18 Opere cit., IV, p. 245 nota.

19 Rinvio, per la posizione storica e poetica del Monti e per la esplicazione e motivazione del suo «entusiasmo» poetico per gli avvenimenti storici, al mio volume di dispense genovesi Corso su Vincenzo Monti, Genova 1956, ormai diffuso come vero e proprio libro fra gli studiosi del Monti, ora pubblicato (presso l’editore Sansoni), non senza integrazioni e revisioni.

20 Cfr. Opere cit., IV, pp. 26-31.

21 Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi: si pensi al rapporto con Napoleone da non considerare globalmente e una volta per tutte, ma da spiegare nelle singole situazioni concrete, si pensi alla posizione contro partiti e sette in nome della «concordia» nazionale che troverà poi distinzione fra partiti e sette nel periodo inglese quando il Foscolo entrerà in contatto con la ben diversa situazione inglese e con il quadro politico-sociale della Restaurazione.

22 Dello scopo di Gregorio VII, 1811, in Opere cit., VII, p. 397.

23 Lettera a G.B. Giovio, l° maggio 1809 (Ep., III, p. 146).

24 Lettera del 20 dicembre 1810 (ibid., p. 482).

25 Rimando per un completo studio dell’Ajace al mio saggio su quella tragedia in Carducci e altri saggi, Torino 1966 ss. Mentre per l’Ortis rinvio alla mia introduzione all’edizione garzantiana (1974) e per le Odi e il primo Foscolo al saggio su l’Ode a Luigia Pallavicini in Due studi critici: Ariosto e Foscolo, Roma 1978.

26 Lettera al Monti del dicembre 1808 (Ep., II, p. 554).

27 Cfr. Opere cit., VII, p. 7.

28 Dico prevalente perché recentemente nella lettura del testo (in corso di pubblicazione) che dell’inno unico ha dato Mario Scotti, rivedendo (e in parte modificando) quello già preparato dal Pagliai, ho visto come le primissime stesure (in ordine cronologico) presentano un iniziale tentativo di versi pieni di note lugubri e di allusioni alla guerra e al suo orrore in chiave, direi, ancora di tipo sepolcriano, come i versi seguenti: «Calpestano gli alipedi di Marte. / Ardon l’Erinni di lor man le antique / selve, e le moli opra di regi: l’ombre / magnanime d’Eroi fremon confuse / a lunga schiera di garzoni estinti / fuor dagli occhi paterni; il piè / alla proda muovono d’Acheronte, e gli occhi errando / cercan fra l’ombre il lume aureo del giorno / anzi tempo smarrito. Ahi dei tuoi figli / vedova è omai la genitrice terra». Ma, dopo queste prime stesure, ben interessanti a porre comunque (in forma persino outrée) come un primissimo aggancio alla storia della guerra di Russia, il tono di disimpegno prevale con chiari impeti gioiosi-edonistici: «lieto» è il carme e l’inno dono delle Grazie, le «nostre dive» «amano gli ozi» e «aman la pace e l’arte», le «graziose» Dee sono «gioia degli inni», il colloquio e la collaborazione con Canova sono piú frequentemente invocati nell’inno che si propone soprattutto un’educazione estetica e solo cosí indirettamente morale dei giovinetti studiosi. Tutte cose da precisare meglio quando il testo definitivo dell’inno e del carme in tre inni sarà definito e pubblicato. Cosí si vedrà meglio (sulla base della cronologia dei vari passi) che i nuovi e piú precisi riferimenti storici entrano nell’inno unico solo con la sua ripresa nel marzo-aprile del 1813, quando si delineerà la complessa direzione delle Grazie in accordo con la situazione concreta e propizia del Foscolo nell’epoca che va sotto il segno significativo di Bellosguardo.

29 Per la storia intera del periodo fiorentino 1812-1813 rinvio al mio saggio Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13, in Carducci e altri saggi cit. (fin dalla prima edizione 1960).

30 V. Masiello, Il mito e la storia. Analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» foscoliane, in «Angelus Novus», 1968, 12-13. Cfr. in proposito a questo saggio, certo uno dei contributi piú stimolanti del foscolismo recente, la recensione di P. Fasano sulla «Rassegna della letteratura italiana» e ora in Stratigrafie foscoliane cit.

31 «Al bellicoso / Scita togliendo il nume suo. Di stragi / su’ canuti e di vergini rapite / stolto! il trionfo profanò che in guerra / giusta il favore della Dea gli porse».

32 Per avvertire gli stessi limiti e la diversa via della grande poesia foscoliana matura rispetto al successivo discorso poetico leopardiano, tanto piú moderno ed esaurientemente svolto, si ricordino, sullo stesso tema dolente della condizione umana, i versi dell’Ultimo canto di Saffo: «Ogni piú lieto / giorno di nostra età primo s’invola. / Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra / della gelida morte». Si pensi anche (ma tutto ciò richiederebbe ben altro ampio discorso!), sul filo di chiari suggerimenti foscoliani, alla diversa maniera leopardiana. Cosí – a parte il passo di danza di Nerina nelle Ricordanze e della giovinezza nelle Grazie, cosí diversificato nel taglio repentino, nello scarto brusco da vita a morte in Leopardi («quando spegneali il fato, e giacevi») – il rapporto-diversità fra l’alta indicazione foscoliana della eroica scontentezza di Alfieri nei Sepolcri («i campi e il cielo / desioso mirando») con la sua tensione al «sublime», e le parole poetiche leopardiane per Nerina (sempre nelle Ricordanze) cosí risolte in forma essenziale-dimessa (la sostituzione di «aria» a «cielo») e nettamente privativa («i campi, / l’aria non mira») con tutto un complesso diverso presupposto di visione della vita e di poetica.

33 Storia ben importante anche perché riporta ad un’opera progettata nel Piano di studi del ’96 (e ricordata nell’Ortis fra le opere scritte, bruciate dal protagonista prima del suicidio) e cosí chiude il cerchio di un’attività sotto il segno del riaffiorare di prospettive giovanili e del significato per Foscolo della storia di Venezia: significato politico assai sintomatico se esso in quest’opera tarda si alimenta di forti nostalgie giacobine e democratiche sia nell’esaltazione del periodo piú «democratico» della storia veneziana e della congiura popolare di Bajamonte Tiepolo, sia nelle considerazioni positive sulla «plebe», sia nelle riflessioni amare sulle conseguenze negative della «proprietà».

34 Nella redazione riportata da M. Praz, in Gusto neoclassico, Firenze 1940, p. 194.

35 Discorso sul testo del poema di Dante, in Opere edite e postume, Prose letterarie, III, Firenze 1931, p. 123.